I racconti di Antonio Petillo:
GLI OSPEDALI. Di medici in squadra non ne avevano mai visto uno. C’era chi n’aveva sentito parlare, qualche volta, ma era una realtà d’altre società, molto più importanti, più ricche o forse solo più organizzate. Loro facevano tutto da soli, poi il pronto soccorso del CTO si trovava solo a due passi dal loro campo. Solitamente almeno una puntatina settimanale la facevano sempre là, sia pure per un lieve malore. Erano di casa, e se i medici non li vedevano arrivare per una decina di giorni si preoccupavano seriamente, pensando che, davvero, qualcuno stesse male. Fu così che il bravoallenatore diventò un “esperto” in distorsioni, contusioni, lesioni e quant’altro potesse capitare in scontri di gioco. Pare, addirittura, che lo interpellassero spesso per tenere seminari di infortunistica alla facoltà universitaria di medicina; ma non è stato accertato. Piuttosto è vero che era sempre lui ad essere chiamato per primo dai giocatori in caso d’infortuni. Al momento di bisogno, ecco che compariva, immediatamente, con la sua Fiat 600 rossa, e di corsa (si fa per dire) al CTO. Oramai era conosciuto da tutti i sanitari. Tanto che, era capace di ottenere una radiografia in dieci minuti, una fasciatura in cinque e, addirittura, una sutura in tre minuti; ma dipendeva dai punti da cucire. Per quanto riguardava le visite specialistiche, anche a mezzanotte era capace di reclutare: otorini, ortopedici, oculisti, cardiologi... Di Ecografie e TAC in verità in quell’epoca non se ne sentiva proprio parlare. Forse non esistevano neppure, chissà. Si dice che n’erano ben attrezzate le cliniche private, ma questo è un altro discorso. Tuttavia, per loro fortuna, o per la loro tempra, non affrontarono mai incidenti molto gravi. Confermando quanto diceva il detto popolare: “Povere ‘e criature Dio ce pensa”. Accadde che un giorno, nel giocare una partita fuori casa, il loro ospedale si trovava troppo lontano, e questo fu il loro rammarico. Eppure quel lancio baseball era stato perfetto. Molto bello fu anche il canestro del compagno, che raccolse quel suo passaggio. Mi sembrò quasi un’azione dei loro idoli Abdul Jaabar e Norm Nixon: “Lancio diretto e canestro in contropiede”. L’unico problema di quella bella azione, fu che il braccio del giovane Giovanni “volò” appresso al pallone. L’infortunio sembrò subito diverso dai soliti. La migliore promessa della loro squadra, rimase con l’articolazione “staccata”. Il giro per gli ospedali fu fatto con la solita Fiat 600 rossa, finché, tra i nosocomi del povero hinterland, riuscirono a trovare un esperto che ridusse la dolorosa lussazione, rimettendo l’omero di Giovanni nel naturale alloggio della scapola. Ma forse sarebbe servita anche una gessatura, delle terapie o qualcos’altro, fatto stà che i malcapitati andarono via con placida soddisfazione; rassicurati che il braccio era ritornato al suo posto. Ma purtroppo successe che, da quel giorno, ogni lancio di Gianni era una corsa al CTO. Ogni rimbalzo una preoccupazione in più. Il braccio destro del giocatore era diventato “sganciabile”, tipo costruzione Lego. Così, dovette rinunciare ai suoi bellissimi passaggi lunghi, alla sua promettente carriera, al sogno dei “Los Angeles Lakers”. Si dice che diventò ancora più bravo in altri particolari tecnici, ma la sua ascesa fu condizionata da quei modesti ospedali dell’hinterland, così diversi dal suo CTO o forse dalla limitata educazione sanitaria dell’epoca; chissà. Eppure, per sempre rimase il rammarico di quel medico di squadra.., Se solo ne avessero avuto uno… Ne avevano sentito parlare, qualche volta, ma era una realtà d’altre società, molto più importanti, più ricche o forse solo più organizzate. www.basketkourosnapoli.com Il racconto è tratto dal libro di Antonio Petillo: “Storie di basket vissuto” Ed.: Grafica del Golfo, 2001.
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