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I racconti di Antonio Petillo: le sfogliatelle


Il presidente li lasciava alla stazione di Campi Flegrei all’una del pomeriggio con il consueto cartoccio di sfogliatelle che avrebbero divorato, come primo pasto, nel trascorrere le circa venti ore di treno che li avrebbe portati nel lontano sud della Sicilia, per giocare a Porto Empedocle, Agrigento, Castellammare del golfo o altri paesi di cui non si ricordano nemmeno più i nomi. Commossi dal gentile pensiero, i ragazzi affrontavano il viaggio con incosciente divertimento. Non sapevano bene quali fossero le loro aspirazioni. Forse solo sfogare l’eccessiva esuberanza, fatta di periferia e scarpette comprate a Resina, di palloni rubati giù alla “Partenope” e di campi presi in subaffitto dai custodi “padroni” delle scuole della lontana periferia. C’era una società non società, di un presidente senza soldi, un campo immenso che era il meraviglioso bosco di Capodimonte dove il bravoallenatore trattava tutti i fondamentali, con palla e senza palla, ma senza canestri… Con Bennato nella testa che cantava “burattino senza fili” ritornavano dalla Sicilia dopo “alcuni giorni”; spesso vittoriosi, ma era un dettaglio. Ad attenderli, all’alba, alla stazione centrale non c’erano né presidenti né sfogliatelle. A quei tempi non c’erano nemmeno gli extracomunitari che dormivano nelle sale d’attesa, perché eravamo ancora noi meridionali ad andare al nord o in Germania. E poi la parola extracomunitario sarebbe stata “inventata” solo un decennio dopo. Dalla stazione il bravoallenatore caricava nella sua vecchia Fiat 600, rosso pompieri, i più piccoli del gruppo, aggregati alla prima squadra, da portare a casa prima di recarsi a lavoro. Per gli altri, c’era vasta scelta tra i pullman: 110 rosso, quello barrato e il 22. Tutti al modico prezzo di 100 lire, perché allora prima delle otto c’era ancora la tariffa operaia. Intanto il tempo passava e molti di loro andarono a giocare fuori città. Un paio si trovarono, addirittura, in serie A. Ma, forse, non erano contenti. Cercavano il loro bosco, il bravoallenatore. Intanto avevano trovato il lavoro, così raro dalle loro parti. Oggi il bosco è ancora là, i custodi padroni delle scuole pure, ci sono gli stessi ragazzi con nomi diversi ma uguali ai primi, Bennato è tornato a cantare parlando di immigrati. Mancano solo il presidente senza soldi e il bravoallenatore che non prendeva soldi. Si dice che se li avvisteranno li costringeranno a tornare di nuovo. Il racconto è tratto dal libro di Antonio Petillo: "storie di basket vissuto" edizione Casertana.





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